QdVela e Motore Forum Nautico

  1. Dal galleggiante al vettino
    di Bruno-21

    AvatarBy QdV il 13 April 2015
     
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    Per chi, come me, proviene da una lunga esperienza di pesca (odio la parola militanza mi sa tanto di qualcosa di imposto ed ordinato, anziché di una libera scelta) nelle acque dolci, sicuramente si troverà momentaneamente spiazzato iniziando a pescare in mare e prendere confidenza con questa nuova, ma più entusiasmante realtà.
    Il titolo non tragga in inganno perché la sostanza non è proprio questa, ma nell’immaginario è quella che più si addice a questo cambiamento: dal galleggiante al vettino.
    In sostanza si tratta di due segnalatori di abboccata, un galleggiante che scompare sotto la superficie fa vivere la medesima emozione di un vettino che si piega, ambedue per l’abboccata di un pesce.

    Finchè mi dedicavo all’acqua dolce, identificavo i pescatori di mare in quelle persone non più giovincelle che sedute su di uno sgabello sulla banchina di un molo, armati di canna di bambù, tradizionalmente appoggiata sul lastricato e sporgente sull’acqua, aspettavano di vedere quella beccata che non arrivava mai.
    Raramente, dentro il secchio mezzo pieno di acqua tenuto dalla parte opposta la canna, nuotavano un paio di mugginetti lunghi si e no un palmo della mano.
    A fare da compagnia ai cefali si intravedeva qualche ghiozzo nerastro e qualche bavosa, quando mi parlavano della pesca in mare, quello che mi veniva alla memoria era proprio questo quadretto che ormai mi ero stampato indelebilmente in testa.

    Anch’io da bambino, nei tre mesi che trascorrevo in vacanza a Viareggio, ero quasi tutti i pomeriggi a pescare sul molo, e, le mie prede erano più o meno le stesse.
    A piedi percorrendo tutta via Regia, mi recavo a pescare fermandomi al negozio di pesca Lovi (chissà se esiste sempre) a comprare una coppetta da gelato di tremolina, cinquanta lire, due o tre ami, e poi via a cercare fortuna sulle rive del canale Burlamacca o sulla banchine del porto.

    Il primo approccio con l’acqua dolce fu totalmente diverso, in bici percorrevo i quattro chilometri che mi separavano dall’argine del fiume Pescia, ma qui i pesci c’erano davvero, scardole, persici sole, tinche, pesci gatto e qualche rara carpetta.
    L’innesco era più semplice perché l’esca era il bigattino che noi tutti chiamavamo bachino di sego, molto più consistente della fragilissima tremolin e con dieci lire di questa esca potevi pescarci tutto il giorno.
    Alcuni amici più grandi, con la mia stessa passione, si erano automuniti e ogni tanto mi portavano con loro a pescare nell’Arno o nel Serchio.
    Naturalmente i miei genitori visto che ero veramente appassionato di pesca, mi avevano portato nel negozio più attrezzato di Montecatini e mi avevano fatto scegliere l’attrezzatura, a dire il vero più che sceglierla avevo preso quello che il negoziante aveva detto essere adatta alla mia età, e, che, comunque, con quella, avrei potuto fare ogni tipo di pesca.
    Solo in seguito mi accorsi di quanto quel tizio fosse stato bugiardo, le cose che mi aveva venduto, a parte la cassetta, i galleggianti e la minuteria, erano sicuramente quelle dove aveva guadagnato di più, tutto là.

    Comunque sia, indirizzato dai più esperti, cominciai a catturare barbi e cavedani, qualche trota e qualche carpa degna di questo nome.
    Non vedevo l’ora che arrivasse la domenica per dare sfogo a tutta la mia passione, già all’alba eravamo in pesca e rifacevamo le canne quando ormai la luce del sole era spenta da un pezzo.
    Non appena ebbi patente ed auto, cominciai a frequentare fiumi più lontani dal sud al nord e cimentarmi con altre prede: scardole, savette, pighi, lucci, lucioperche.

    Il difetto principale dei pesci di acqua dolce è quello, salvo eccezioni, di essere più o meno immangiabile, per cui, a parte il divertimento della cattura, una volta preso il pesce veniva liberato dall’amo e reimmesso in acqua, così, il passo fu breve e per dare un significato alle catture iniziai a gareggiare.
    Se c’è una cosa che fa affinare il proprio target di pesca e insieme far conoscere ad una ad una tutte le attrezzature e tutte le tecniche più raffinate, questa è la competizione agonistica.
    Parliamoci chiaro, l’importante sarà anche gareggiare, come diceva De Cubertain, ma se ogni tanto si riesce a fare un primo o un secondo e prendersi una bella medaglietta d’oro è anche meglio e più stimolante.

    Fu un mio amico a parlarmi della pesca in mare, quella vera, fatta sulle scogliere di Calafuria quando il mare lo permetteva, non doveva essere né troppo calmo, pena un fiasco assoluto e neppure troppo mosso, pena un bagno non voluto con il rischio di essere trascinato in mare dalla risacca.
    Proprio quella domenica, neppure a farlo apposta ci sarebbero state le condizioni ideali.
    Come attrezzatura andava bene una bolognese di sei metri, un mulinello di taglia 3000/4000 caricato con un nylon dello 0,20, alcune boette galleggianti da 4 e 5 grammi piombate, terminale dello 0,12-0,14 ami n° 14 e come esca chiesi? Ma i bigattini naturalmente.
    Sorrisi un po’ ammiccante chiedendo all’amico se avessimo dovuto pescare barbi e cavedani, per tutta risposta lui mi guardò perplesso domandandomi: - Bruno, ma non sai proprio niente della pesca in mare….è da una vita che peschiamo col bachino…dai procuratene un bel chilo di quelli di Obre, quelli degli altri negozi affondano con difficoltà, così feci.

    La mattina ancora a buio partimmo per la scogliera del Romito, e giungemmo sul posto di pesca alle prime luci dell’alba.
    Una macchina di pescatori ci aveva preceduto e li vedemmo mentre scendevano il sentiero che portava al mare.
    Ci caricammo tutta l’attrezzatura e li seguimmo, loro a detta del mio amico si erano piazzati non molto bene per essere arrivati per primi, lasciandoci così i posti migliori e più comodi che occupammo immediatamente.

    Questo fu il mio battesimo vero, il primo incontro con pesci di mare veri: saraghi e occhiate, non abbandonando al momento la tipologia di pesca, quella col galleggiante alla quale ero abituato.

    Così fu amore a prima vista, una pesca emozionante e non proprio facile, un’esperienza però totalmente diversa ed entusiasmante.
    Venendo dall’acqua dolce misurai perfettamente il ritmo e la quantità di bachini che gettavo come pastura per attrarre i pesci a portata di canna, sfruttando al meglio la corrente che la risacca creava per portarli verso il largo.
    Ero al settimo cielo, finalmente riportavo a casa dei pesci che potevo mangiare o regalare sapendo che erano prelibati e ricercati, e anche questa per me era una novità assoluta.

    A questa seguirono altre uscite, sempre sulle scogliere del litorale, seguendo le indicazioni che via via riuscivo ad “estorcere” al prezzo di qualche colazione e qualche cena dagli amici garisti che oltre alle gare praticavano la pesca in mare.
    Conobbi così le scogliere di Bonassola, le Rocchette di Castiglion della pescaia, Buca delle Fate, Villa Majol all’Elba e molte altre ancora, e, ognuna di esse, con fondali e correnti diverse, imponeva di uniformarsi con attrezzature diverse ed una diversa concezione della pasturazione.
    Fui anche invitato a pescare dalla barca, ma la tecnica e le prede erano sempre le stesse: galleggiante piombato e occhiate e saraghi con qualche raro incontro con sua maestà l’orata.

    Il passaggio più importante di tecnica però, fu quando fui invitato a pesca sulla barca di mio zio Remo.
    Un bel Calafuria di quasi 10 metri che lo zio teneva ormeggiato nel Magra a Marina 3B.
    Fu allettante anche il programma:- partenza il pomeriggio da bocca di Magra, sosta cena e pernottamento a Livorno, dove avemmo imbarcato altri due amici labronici espertissimi pescatori, e, poi via verso la Corsica dove avremmo calato i palamiti.
    Nell’attesa di ritirarli ci saremmo dedicati al bolentino, una pesca per me sconosciuta, non dovevo portare nessunissima attrezzatura ci avrebbero pensato i livornesi ad imbarcare tutto l’occorrente esche comprese.
    Avremmo trascorso la seconda notte in Capraia, nuova calata di palamiti e bolentino, poi nel pomeriggio rientro a Livorno e bocca di Magra.

    Iniziò così la mia prima vera esperienza su una barca che aveva molto, per me, il sapore dell’avventura tutta da vivere e gustare fino in fondo.
    Gli amici livornesi, uno dei quali si chiamava Bruno come me, avevano portato a bordo in alcuni capaci contenitori termici, una svariata scelta di esche adatte sia per il palamito sia per il bolentino.
    La notte non chiusi occhio, ormeggiati alla banchina del distributore del porto, contavo i minuti che ci separavano alla partenza, finalmente sentii Bruno chiamare lo zio Remo perché calasse la passerella per salire a bordo, una volta saliti, Bruno e Renzo, così si chiamavano i due nuovi compagni di pesca, fu salpata l’ancora e l’avventura ebbe inizio.
    La barca non era velocissima, andavamo sui 18 nodi e occorsero più di tre ore per giungere sulle secche davanti la Corsica dove si sarebbero messi a mare i palamiti.
    Durante il percorso i due si dettero daffare per innescare e per preparare i bolentini, naturalmente io non persi una sola battuta, provai ad innescare gli ami di un palamito come avevano fatto loro, ed ebbi subito i loro complimenti, poi mi chiesero se avessi già pescato ed io gli raccontai tutti i miei trascorsi e di come fossi passato alla pesca in mare.
    Il mio interesse più che per i palamiti era rivolto al bolentino e Renzo, il più esperto in questa pesca mi fece vedere come preparava i terminali e mi spiegò come si sarebbe svolta la pesca.
    Si trattava di calare sul fondo un filaccione attualmente avvolto su di un telaio di sughero, composto da un trave in nylon dello 0,70, tirato fino a sfibrarlo, in fondo c’era un moschettone di generose dimensioni, sul quale veniva agganciato il terminale.
    Questo calamento era fatto con nylon dello 0,40 e portava 3 braccioli con ami del numero 1, in fondo al calamento, un’asola permetteva di “cucire” la zavorra, un piombo a base cubica e testa piramidale di 150 grammi di peso.

    Abituato all’uso di sottili nylon anche per la pesca in mare, chiesi se il diametro di questo terminale non fosse troppo grosso, ma Renzo, sorridendo sotto i suoi baffoni mi fece capire che alle profondità che pescavamo il diametro non aveva quasi nessuna importanza, errore colossale capii in seguito, ma a quei tempi i pesci c’erano ed anche ben disposti ad abboccare e ben presto ne avemmo la conferma.

    Quello che invece feci, subito dopo, fu di chiedere a Renzo di farmi un calamento sotto i miei occhi così da apprenderne la tecnica.
    Renzo prese dalla tasca del suo giubbotto una bobina di nylon e in poco tempo fece nascere un calamento, me lo dette senza ami ed io finii il lavoro armandolo.
    Mi passò la bobina e provai a costruirne uno come aveva fatto lui, la cosa riuscì perfettamente e Renzo andò subito a riferirlo agli altri a bordo, zio Remo non rimase sorpreso sapeva che annaspavo spesso tra lenze ed ami, anzi, disse agli altri due che sicuramente sarei riuscito a migliorarlo, infatti il successivo lo feci con braccioli differenziati, dei quali il bracciolo pescatore, l’ultimo vicino al piombo lo costruii di una sessantina di centimetri, anziché i 20 centimetri come avevano fatto per gli altri.
    I due si mostrarono perplessi dicendomi che avrei annodato tutto alla prima calata, ma io decisi che avrei provato a pescare proprio con quel calamento.
    Arrivammo sulla secca fatidica, non so dirvi come si chiama e dove eravamo, a quei tempi gli strumenti di navigazione consistevano in una bussola ed un contamiglia e stava all’abilità del pilota mantenere la rotta per arrivare approssimativamente dove avremmo voluto, poi con l’ausilio dello scandaglio avremmo perfezionato l’arrivo a destinazione.

    Senza perdere tempo iniziammo a calare il palamito, lo zio ai comandi aiutava con i due motori a far scendere il palamito nella maniera corretta, il primo segnale era composto da una bandierina fissata su una lunga asta telescopica, mentre il segnale terminale era un gavitello di generosi dimensioni di colore giallo.

    Ci vollero quasi due ore per calare le quattro casse di parangali, poi dovevamo lasciarli pescare perlomeno per quattro ore, meglio se cinque.
    A avremmo apputo trascorso il tempo pescando a bolentino ma su un’altra secca a poca distanza da dove avevamo calato, e fu appunto li che ci dirigemmo.

    Fu prelevata da un gavone un’ancora a rampino e una cesta contenente un centinaio di metri di cima ed una lunga catena.
    Mentre lo zio si dirigeva sulla secca dove avremmo pescato, i due amici di Livorno prepararono l’ancora per la calata.
    Naturalmente io non persi una mossa, chiedendo il perché della catena fissata con un grillo sotto le marre, il cordino messo tra la fine del fusto e la catena affiancata, loro mi rispondevano con pazienza ed anche un po’ di commiserazione perché non sapevo assolutamente niente di niente.
    Dopo la spiegazione capii come funzionava tutto il sistema e di come l’ancora venisse liberata dal fondo anche in caso di forte incaglio.
    Lo zio Remo disse di prepararsi e loro presero sulle braccia l’ancora e l catena, poi venne impartito l’ordine di gettare a mare e un secondo dopo l’ancora scendeva verso il fondo per fare il suo dovere, quello di fermare la barca.

    Per un momento sembrò che l’ancora non facesse presa, poi improvvisamente la barca si girò e mise la prua al vento, aveva afferrato.
    In un secchio erano stati messi in precedenza i gamberi di paranza a scongelare, avremmo pescato con questi alla ricerca dei rosei pagelli o fragolini che qui a Livorno chiamano rigorosamente paraghi.
    Seguii la fase d’innesco, che iniziava dalla coda per poi far scivolare tutto l’amo all’interno del gambero e fare uscire solo la punta e l’ardiglione dalla testa.
    Provai col primo amo e mostrai il risultato, andava bene, innescai poi gli atri ed iniziai a calare sul fondo come avevo visto fare.
    Tutta la lenza era avvolta su di un telaio di sughero pressato rettangolare e tenendolo tra il pollice e l’indice a bilancia, si svolgeva senza intoppi e arrivò finalmente sul fondo.
    Tenuta la lenza tra le dita, si avvertivano le toccate dei pesci, un rapido sollevamento del braccio, uno strappone, dato con violenza avrebbe permesso all’amo di trapassare le labbra del pesce e l’ardiglione avrebbe impedito alla preda di slamarsi.
    Il recupero consisteva nel far scorrere il nylon sul tientibene del pozzetto tirando la lenza dal lato opposto e cercando con una mano di farla avvolgere ordinatamente sul pagliolo.
    Il pesce veniva poi sollevato dall’acqua, slamato e messo in un secchio, dopo un certo numero di prede il secchio veniva vuotato in un apposito gavone frigo, dove una stanga di ghiaccio avrebbe consentito la sua conservazione ottimale, la barca di zio Remo era proprio completa di tutti questi accorgimenti per riportare il pesce a casa integro e fresco.

    Gli amici livornesi più svelti di me stavano già ritirando la lenza con attaccti i primi pesci, mentre io non avevo ancora sentito una beccata, dopo mi spiegarono l’arcano, finalmente anch’io percepii delle sensibilissime tocche e tirai a caso durante le mangiate.
    Li per lì credetti di avere presso il fondo, ma un attimo dopo tirando con più forza riuscii a sollevare il piombo e mi resi conto che la sul fondo, un pesce aveva abboccato e tentava di liberarsi tirando a più non posso.
    Iniziai a recuperarlo aiutandomi con il tientibene, mentre Bruno e Renzo avevano già salpato le loro prede, si trattava di bolagi (sciarrani) di generose dimensioni, con una grande bocca dalla quale usciva in parte la rigonfia vescica natatoria, ne avevano catturati tre per ciascuno, io continuai a salpare mentre loro innescavano nuovamente.
    Finalmente giunsi alla girella, due metri più sotto c’era il terminale, mi sporsi e recuperai gli ultimi due metri, poi alzai il braccio sollevando il pesce e lo feci atterrare sul pagliolo.
    La mia preda di bolentino era un roseo pagello sul mezzo chilo, i due amici mi riempirono di complimenti, mentre zio Remo venne a congratularsi e stappò una bottiglia di spumante per brindare alla mia prima preda.

    Al primo ne seguirono altri e anche gli altri due si davano daffare, il numero delle catture cresceva e dopo i paraghi anche i saraghi fasciati fecero la loro comparsa, abbastanza grossi come possono esserlo questi pesci, ogni cinque o sei pesci lo zio prendeva il secchio e lo rovesciava nel gavone frigo.
    All’ora stabilita venne rifatta l’ancora e si procedette a salpare i palamiti, il mare era abbastanza calmo e l’operazione risultò semplice.
    Dopo una mezza cesta il primo pesce fece la sua comparsa, si trattava di una gallinella di generose dimensioni, a questa ne seguirono altre due o tre più piccole e subito dopo una murena.
    Gli altri palamiti più o meno dettero il medesimo risultato, mentre la salpata continuava ebbi modo di pensare a quanto poco soddisfacente fosse stata questa pesca unicamente rivolta alla cattura senza nessuna altra emozione se non quella di vedere aggallare dei pesci morti o morenti che se catturati con il bolentino avrebbero divertito e soddisfatto.
    Di tempo ne è trascorso tanto da allora ma il mio pensiero non è mai cambiato, ho sempre considerato questo tipo di pesca come professionale e quindi per me assolutamente priva di interesse.
    Prima che calassero le tenebre eravamo già rientrati in porto a Capraia e ci eravamo ormeggiati, col consenso del proprietario alla banchina davanti il distributore, dove, naturalmente, zio Remo aveva fatto in precedenza il pieno di gasolio.
    Proprio davanti al porto, salendo una ripida scalinata, ci sistemammo al tavolo di un ristorante.
    La proprietaria, una signora di generose dimensioni (diciamo così) conosceva molto bene zio Remo e non appena lo vide, lo strinse al petto e lo baciò sulle guance lasciandolo un po’ ammaccato.
    Ci servì un primo a base di calamaro appena pescato e per secondo un pesce cappone bollito di oltre due chili, pescato il giorno stesso.
    Mentre cenavamo fummo raggiunti da altri amici isolani che conoscevano lo zio e senza fare tanti complimenti si accomodarono a tavola e cenarono insieme a noi.
    Non è che fossero venuti a mani vuote, infatti dopo poco vennero serviti diversi calamari alla piastra con tutto il loro nero, presi pochi minuti prima, delle tanute di taglia extra large passate al forno e un fritto misto di varie specie, con la lisca, di un sapore incredibile.
    Con calma, aiutandosi con diverse bottiglie di un bianco secco che lo zio aveva portato con se da Montecatini, incredibilmente, sparecchiammo tutto.
    Finita la cena e salutati gli amici, un po’ barcollanti raggiungemmo la barca e non mi ricordo altro, ricordo soltanto che il mattino successivo fui svegliato dallo zio dopo che loro avevano già calato alcuni palamiti ed era arrivato il momento del bolentino.
    Quando feci la mia comparsa nel pozzetto i due amici di Livorno non mi risparmiarono una serie di battute sulla mia resistenza al vino, le battute erano accompagnate da pacche sulle spalle e risate per farmi sentire uno di loro.
    Questa zona però si rivelò abbastanza deludente, tranne alcune tanute non grosse, non prendemmo altro.
    Salpammo i palamiti con pochissime prede e ben presto facemmo ritorno a Livorno per poi proseguire per bocca di Magra.
    Fu proprio durante il ritorno che chiesi notizie sulle barche, avevo maturato la decisione di acquistarne una.
    Bruno mi disse che nei fossi aveva un posto barca libero perché lui aveva venduto la sua e me lo avrebbe affittato per ben dieci mila lire al mese.
    La settimana successiva, accompagnato dallo zio, feci visita ai cantieri Catarsi di Cecina, dove conobbi il vulcanico Vincenzo Catarsi e il suo amministratore ragionier Modesti, mi fecero vedere alcuni 7 metri in vendita, un po’ vecchiotti, gli spiegai che volevo un usato recente, insomma seminuovo e gli lasciai il mio numero di telefono in attesa di novità.
    Non sapevo quasi niente di barche ma ero sicuro di una cosa, la mia prima barca sarebbe stato un Calafuria 7 e così fu.

    Non trascorse un mese che l’occasione capitò.
    Una mattina ricevetti, in ufficio, la telefonata di Modesti:- Bruno, (anche lui mi chiamava per nome) domani andiamo a ritirare a Roma la barca che fa per te, ha una stagione e il proprietario ha chiesto di cambiarla con un Calafuria 98, proprio ieri sera abbiamo firmato il contratto, ti aspetto quanto prima per fartela vedere e concludere ma fai presto perché questa la vendiamo in un momento.
    Lasciai passare un giorno, ma il successivo all’apertura del cantiere ero già li insieme a zio Remo.
    La barca, appena scaricata era nel piazzale in attesa di essere lavata e pulita per presentarla agli eventuali acquirenti, ma non ce ne fu bisogno.
    Salimmo a bordo e controllammo il contaore, 34 ore di moto, motore in garanzia, si trattava di un 145 cavalli AIFO che, aperto il vano motore centrale, era integro con neppure una traccia di ruggine.
    Sulla consolle alla sinistra del timone faceva bella mostra di se un eco JMC scrivente che arrivava a 600 metri, radio, antenna, dotazioni, impianti, tutto era pressoché come nuovo, ma quello che mi piacque di più (pensate quanto mi intendevo di barche) è che questo Calafuria era diverso da tutti gli altri che avevo visto, il tendalino posteriore che fungeva da porta d’ingesso in cabina di pilotaggio era di colore giallo anziché bianco come tutti quelli che avevo visto fino ad allora e le spondine laterali che completavano la cabina, con tanto di vetri scorrevoli erano rigide in stampata di VTR, forse saranno state un po’ più scomode per l’estate, ma tanto tanto comode per l’inverno.
    Gialla era pure la linea di galleggiamento per uniformarsi al colore del tendalino.
    Vincenzo e Modesti ci aspettavano in ufficio e dopo un tira e molla con zio Remo definimmo il prezzo e rilasciai subito, per fermare l’affare, un acconto di quasi la metà.
    Il sabato della settimana successiva, la barca venne messa in mare a Vada dal pontile di Catarsi, ed io accompagnato dallo zio e dai due amici livornesi, intrapresi il mio primo vero viaggio al comando della mia barca da Vada fino all’ormeggio nei fossi di Livorno, in Piazza della Repubblica.
    Per combinazione, dato che mio cognato l’anno precedente frequentava la scuola serale per la patente nautica, per fargli compagnia, avevo deciso anche io di seguire il corso.
    Dato che ad entrambi parve una cosa facilissima, decidemmo di prenderla al massimo livello che a quei tempi si chiamava oltre le venti miglia.

    Ma dove siamo andati a finire, è proprio vero che noi toscani siamo chiacchieroni, volevo parlare soltanto del passaggio dall’acqua dolce al mare e invece mi trovo a raccontare una parte della mia vita, ma rimedio subito.

    Nessuno mi aveva parlato della grande varietà di tecniche (odio anche la parola discipline per le ragioni che ho già detto) che si potevano praticare in mare, e, anche gli amici Livornesi che furono i miei maestri e compagni di pesca per diversi mesi, seppero insegnarmi altro, quindi, tutte le uscite erano unicamente dedicate al bolentino di medio fondale che praticavamo, debbo dire, con tanto entusiasmo e tanta soddisfazione.
    I paraghi in quegli anni non mancavano di certo e ogni uscita era accompagnata da altre catture non occasionali, così capii come si potevano insidiare le tanute, i saraghi, i prai, i sugarelli e pescando più in profondità gli occhioni e gli sciabola.
    Tutta la pesca però si svolgeva con la lenza in mano ed era lasciata alla sensibilità delle dita la toccata del pesce.
    Anche la ferrata non poteva che essere decisamente scarsa perché il braccio, comunque sia, veniva alzato con violenza per qualche decina di centimetri e l’amo spesso non si conficcava profondamente come avrebbe dovuto, data la durezza del labbro di alcune specie, con la conseguente perdita per slamatura del pesce agganciato.
    Potendo pescare in quattro, arrivavo da Montecatini sempre con uno o due amici, secondo che i compagni livornesi fossero due, oppure che venisse solo Renzo.
    Bruno era un tipo di umore molto variabile e ben presto abbandonò il settimanale appuntamento uscendo con altre barche che calavano i palamiti.
    Fu proprio durante una di queste uscite che portai con me un amico di pesca nei fiumi, l’amico Vallero che non aveva mai pescato a bolentino.
    Non capisco per quale motivo, ma Vallero non riusciva a percepire le beccate dei pesci e quando ne salpava uno era soltanto perché questo si era spontaneamente attaccato all’amo.
    Mi chiese se avessi potuto portarlo un’altra volta perché avrebbe voluto provare a pescare con una canna e mulinello.
    Francamente, cosa che non faccio mai, mi misi a ridere per questa assurdità, gli chiesi con quale canna avrebbe voluto pescare e lui per tutta risposta mi disse: Bruno ridi pure ma ti assicuro che ho la canna adatta a sopperire alla mancanza di sensibilità che avete voi, te riportami e poi vedremo.

    Il sabato successivo, lo riportai con me, ma quando caricò l’attrezzatura non ebbi modo di scoprire con quale canna avrebbe provato a pescare, questa era occultata in un portacanne di stoffa che Vallero aveva fatto cucire alla moglie sarta e finchè non fummo in pesca, il furbetto si guardò bene dal tirarla fuori dal panno.
    Gettata l’ancora, non potè più farne a meno e finalmente comparve.
    Era una normalissima canna in fibra di vetro piena, di lunghezza di circa 2 metri, una di quelle canne, ne avevo anch’io un paio, che si usano per pescare a fondo nei laghetti e nei fiumi.
    Sul cimino viene applicato un campanello che avverte con il suo suono quando il pesce lo fa scuotere perché sta abboccando o quando ha abboccato.
    Alla sua comparsa la risata mi venne spontanea, gli chiesi anche se avesse portato i campanacci ma lui non se ne fece ne in qua ne in là, continuò a completare l’armatura passando il nylon negli anelli, mettendo una girella e legando a questa il terminale che usavamo anche noi.
    Non potei però fare a mano di notare che il cimino aveva avuto una trasformazione, Vallero lo aveva assottigliato nella parte terminale tingendolo di rosso per una migliore visibilità e aveva cambiato gli anelli, legandone altri di dimensione più piccola.
    La canna era molto rudimentale ma Vallero aveva creato una canna da bolentino, altro che ridere, questo era il prototipo di quelle che sarebbero state pensate successivamente dalle varie case produttrici, questa persona della quale avevo riso era invece di una genialità incredibile, aveva creduto ad una cosa ed era arrivato in fondo.
    Non è che catturasse più di noi che pescavamo con le lenze a mano, ma solo uno scemo non poteva non apprezzare la versatilità ed i vantaggi della canna rispetto alle lenze a mano.
    Anzitutto, facendo il pendolo, poteva lanciare le esche lontano dalla barca e durante tutta la pescata non si intrigò mai con una lenza delle nostre, cosa che invece a noi succedeva.
    Nonostante fosse in sfavore di corrente la lenza non strusciava mai sul parabordo della barca come invece succedeva al compagno di pesca della sua parte che per questo non percepiva più le beccate.
    Le beccate erano ben visibili sulla vetta, ma non solo, dopo qualche ora di rodaggio, spesso riusciva a capire di quale pesce si trattasse dal modo di assaggiare l’esca, insomma i vantaggi erano tanti e tutti a favore dell’uso della canna rispetto alla lenza a mano.
    Altro aspetto non trascurabile, la lenza nel recupero veniva avvolta dalla bobina del mulinello e non lasciata libera sul pagliolato, con il rischio concreto, come succedeva due o tre volte a noi durante la pescata, di avvolgersi creando un groviglio problematico che solo grazie al consistente diametro del trave riuscivamo a venirne a capo.
    Col mulinello, lui aveva caricato uno 0,30 la corrente creava meno attrito per cui poteva usare piombi più leggeri dei nostri e pescare più a picco di noi sotto la barca.

    Nonostante Renzo non volesse darsene per inteso, io ne afferrai immediatamente il concetto, era finita un’epoca e ne stava iniziando un’altra, mi rammaricai tra me di aver preso in giro chi voleva migliorarsi e migliorare un sistema di pesca che era superato dai tempi e dalle attrezzature, dopo quella volta e quella lezione mi sono sempre ben guardato, come invece fanno in molti, a voler criticare per forza l’operato altrui e tanto meno ridere di chi vuole sperimentare nuove tecniche.

    La settimana seguente fu tutta dedicata, nel tempo libero, alla creazione delle nuove canne, partendo però da altre basi, il sabato successivo avemmo modo di giudicare il nostro lavoro e da allora non ho mai smesso di elaborare nuove canne aumentandone sia le prestazioni che la sensibilità e non ultimo la leggerezza.

    Successivamente molte case produttrici hanno immesso sul mercato alcune canne studiate appositamente per questa pesca, e, grazie a queste il passaggio dal galleggiante al vettino è stato sempre più semplice e rapido.




    (Link alla discussione originale: http://quellidelvolavia.blogfree.net/?t=4637543)

    Edited by Chrìs - 17/4/2015, 18:32
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